martedì 24 giugno 2025

La Settima Donna (1978)

 
Regia: Francesco Prosperi
Anno: 1978
Titolo originale: La Settima Donna
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (5.6)
Pagina di I Check Movies
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Film:

Ci sono film che non hanno bisogno di mostrare tutto per essere disturbanti. La settima donna di Franco Prosperi (leggero pseudonimo di Francesco) è uno di questi. Un’opera che incide nella carne dello spettatore senza necessariamente farla vedere. E forse è proprio questo il motivo per cui, a distanza di quasi cinquant’anni, continua a far male.

Ambientato in un convento isolato, in un’Italia che sta ancora cercando di capire se crede più in Dio o nel caos post-‘68, il film racconta l’irruzione brutale di tre criminali in fuga, che sconvolgono l’equilibrio sacro di un piccolo gruppo di novizie. Lì, in quello spazio apparentemente protetto, si consuma una lenta e inesorabile discesa nell’orrore. Ma non è l’orrore a cui ci hanno abituato i torture porn americani o i remake acchiappa-click: La settima donna lavora per sottrazione. Le scene più violente ci sono, eccome, ma non vengono mai sbattute in faccia. E proprio per questo risultano ancora più inquietanti.

La violenza non è solo fisica, è psicologica, sacrilega, carica di tensione erotica e repressa. Florinda Bolkan, nel ruolo della suora protagonista, offre una performance intensa, fatta di sguardi, tremori e dignità ferita. Lo spettatore sente addosso la paura, il terrore paralizzante, l’impossibilità di reagire in un mondo dove ogni riferimento morale sembra crollato.

Ed è qui che La settima donna fa scuola. Oggi ci si affanna a imbastire horror sempre più splatter, sempre più artificiali, pieni di sangue finto e urla isteriche. Ma pochi riescono a costruire un senso di violazione così tangibile, di profanazione così potente, come fa Prosperi con pochi elementi: una location claustrofobica, tre uomini come bestie feroci, e il contrasto tra sacro e profano portato all’estremo.

Un film che mette a disagio. Non perché esagera, ma perché non ha bisogno di farlo. Un cinema violento, sì, ma intelligente, che affonda coltelli simbolici nella carne viva del senso di colpa, della paura del diverso, del trauma non detto. Guardarlo oggi fa quasi rabbia: con così pochi mezzi e nessun effetto digitale, riesce a essere più disturbante di decine di titoli recenti pieni di orpelli.

In definitiva, La settima donna è un pugno nello stomaco ancora attuale. Un promemoria su come si può essere spietati senza diventare ridicoli, e su quanto il vero orrore spesso risieda in ciò che non si vede, ma si sente.

Edizione: DVD

Non è un caso che le versioni fisiche (o digitali ) non si trovano con facilità.  Semplice DVD con audio italiano anche in multicanale ed i seguenti extra:

  •  Presentazione (3 minuti)
  • 2 schede didascaliche  

lunedì 23 giugno 2025

Blind Guardian - Nightfall In Middle-Earth

 

Autore: Blind Guardian
Anno: 1998
Tracce: 22
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Non sono mai stato un fan sfegatato di Tolkien. Lo rispetto, certo, e ne riconosco l’impatto gigantesco, ma non ho mai avuto il poster di Gandalf in cameretta né ho imparato il Quenya. Eppure Nightfall in Middle-Earth è uno di quegli album che riesce a farti sentire Tolkien anche senza averlo letto con devozione. È talmente ispirato, orchestrato, vivo... che la sua grandezza supera di slancio la barriera del testo originale. Questo è un disco che respira e racconta, più che semplicemente suonare.

Lo presi in CD anni fa, quando ormai avevo già ascoltato parecchio metal, ma Nightfall fece comunque il botto. A differenza di altri album dei Blind Guardian — pur sempre ottimi, ma talvolta schiacciati da una produzione troppo caotica o da una velocità esasperata — qui tutto è perfettamente equilibrato: le cavalcate, i cori, i momenti acustici, le esplosioni, le pause. È il loro capolavoro. E sì, lo dico senza timore.

Ogni pezzo è un frammento di un mondo. Gli interludi parlati che si intrecciano alla narrazione non sono semplici riempitivi, ma veri respiri drammatici, come sipari che si alzano e si abbassano a segnare il ritmo teatrale dell’epopea. È musica che racconta, che costruisce immagini, che — senza bisogno di effetti speciali — ti sbatte in faccia il dolore di personaggi leggendari, la follia della guerra, il senso di perdita, il rimorso eterno.

L’opener Into the Storm ti prende a ceffoni: sei nel mezzo di una battaglia, le chitarre galoppano, i cori esplodono. Ma poi arriva Nightfall ed è subito chiaro che qui non si scherza: una ballata epica ma piena di tensione, quasi più vicina a un requiem che a un lamento, eppure con una forza melodica da pugno nello stomaco.

Ogni brano potrebbe essere sviscerato per ore: Mirror Mirror che è diventata, a ragione, un’icona live; Blood Tears che ha una costruzione melodrammatica quasi da musical oscuro; The Curse of Feanor che è puro metallo in fiamme, un manifesto di orgoglio e dannazione. Ma forse il brano che più mi colpì al primo ascolto — e ancora oggi mi raggela — è A Dark Passage: lungo, denso, quasi visionario. È lì che i Blind Guardian mostrano fino a che punto si può spingere il power metal senza perdere in coerenza o profondità.

La produzione, affidata a Flemming Rasmussen (già al lavoro con i Metallica di Master of Puppets), è caldissima, stratificata, teatrale. Ogni suono è scolpito, mai lasciato al caso. Gli arrangiamenti vocali sono da pelle d’oca: una vera e propria architettura di voci, con Hansi Kürsch che si dimostra qui — se ce ne fosse ancora bisogno — uno dei frontman più espressivi del genere.

È un album complesso, sì. Serve tempo. Serve attenzione. Ma ripaga. Lo dico da ascoltatore non tolkieniano: Nightfall in Middle-Earth riesce a evocare un mondo e a dargli carne, sangue, fiamme e gloria. Ed è raro, rarissimo, che un disco ci riesca davvero, senza scenografie fittizie o giri di parole. Solo con la musica.


Tracklist (edizione standard CD):

  1. War of Wrath
  2. Into the Storm
  3. Lammoth
  4. Nightfall
  5. The Minstrel
  6. The Curse of Feanor
  7. Captured
  8. Blood Tears
  9. Mirror Mirror
  10. Face the Truth
  11. Noldor (Dead Winter Reigns)
  12. Battle of Sudden Flame
  13. Time Stands Still (At the Iron Hill)
  14. The Dark Elf
  15. Thorn
  16. The Eldar
  17. Nom the Wise
  18. When Sorrow Sang
  19. Out on the Water
  20. The Steadfast
  21. A Dark Passage
  22. Final Chapter (Thus Ends…)



domenica 22 giugno 2025

Zero Contact (2021)

 
Regia: Rick Dugdale
Anno: 2021
Titolo originale: Zero Contact
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB (4.2)
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C'è una nuova categoria di film, venuta fuori con la pandemia, che potremmo chiamare: Cinema da Webcam e Zero Contact è il tentativo maldestro di impacchettare una trama sci-fi con velleità filosofiche dentro un'interfaccia da videoconferenza. Risultato? Più che Matrix, sembra una riunione aziendale andata molto, molto male.

E attenzione: tra i partecipanti, c'è nientemeno che Anthony Hopkins, che si aggira tra riprese sfocate e monologhi criptici con l’aria di uno che ha firmato il contratto prima di chiedere “ma scusate, dove sono le telecamere vere?”. Un attore gigantesco, ridotto a ologramma da PowerPoint La storia gira attorno a un genio della tecnologia (Hopkins), morto ma forse non troppo, che lascia una eredità inquietante a cinque persone sparse per il mondo. Queste, durante una call mondiale, vengono coinvolte in un complotto che – sulla carta – dovrebbe fare il verso ai grandi dilemmi sull’intelligenza artificiale, il controllo dei dati e l’etica dell’innovazione. Ma nella realtà... si perde tutto in una melma di dialoghi pretenziosi, scenette da escape room e riprese amatoriali in stile “mi collego col cellulare dal salotto”.

Girato interamente durante il lockdown, e si vede. Letteralmente. Non c’è mai un’inquadratura degna del nome. Solo split screen, connessioni instabili, facce in controluce, e una regia che tenta disperatamente di sembrare innovativa mentre sembra solo una chiamata su Teams con filtro grunge.

E quel che è peggio: invece di fare di necessità virtù e giocare con i limiti, Zero Contact si prende sul serio. Troppo. Tra frasi a effetto sparate nel vuoto e tentativi di costruire tensione dove c’è solo confusione, si affossa nel ridicolo. Un film che prova a sembrare tenebroso ma cade nella trappola dell’incomprensibile.

Ma cosa ci fa Anthony Hopkins in mezzo a tutto questo? È la vera domanda del film. Ha bisogno di pagare l’abbonamento a Dropbox? Era curioso di testare OBS Studio? Nessuno lo sa. Di sicuro, la sua classe è sprecata in mezzo a questo tecnoblabla di quarta categoria.

Joseph Conrad - Cuore Di Tenebra

 

Autore: Joseph Conrad
Anno: 1899
Titolo originale: Heart Of Darkness
Voto e recensione: 5/5
Pagine: 120
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“Il vero significato del viaggio non è la destinazione. È scoprire, una volta arrivati, che ti sei portato dietro il tuo stesso inferno.”

Ci sono libri che si leggono. E poi ci sono libri che ti leggono. Cuore di tenebra di Joseph Conrad appartiene a questa seconda, più inquietante categoria. Travestito da racconto d’avventura coloniale, con battelli a vapore e giungle congolesi, in realtà è un’opera nera come la pece, una discesa all’inferno della coscienza occidentale. È il diario di bordo di una civiltà che si specchia in se stessa e non si piace affatto.

Letto oggi, oltre un secolo dopo la sua pubblicazione (1902 per intero o 1899 in tre capitoli ), ha ancora il potere di turbare, ipnotizzare, fare domande scomode. Non solo perché mette a nudo l’ipocrisia del colonialismo (“il saccheggio col pretesto della civilizzazione”), ma perché suggerisce che il cuore di tenebra non è là fuori, nella giungla africana. È dentro di noi.

Il battello, la nebbia, il delirio

La trama in sé è semplice, quasi minimalista: Marlow, marinaio inglese, risale un fiume africano per trovare Kurtz, agente coloniale misterioso e leggendario. Un viaggio lungo, fisico, che scivola lentamente nel metafisico. Perché Kurtz è allo stesso tempo un uomo e un simbolo. E l’Africa, più che uno sfondo, è un labirinto interiore. Ogni passo nella foresta è un passo nella psiche.

Lo stile di Conrad è torbido, avvolgente, fatto di frasi circolari, reticenze, chiaroscuri. Non dice mai tutto. Allude. Insinua. Avvolge il lettore in una nebbia dove è difficile orientarsi, esattamente come Marlow nella giungla. È un romanzo che non offre certezze, solo intuizioni. E ogni intuizione, più che chiarire, inquieta.

Kurtz: l’abisso con la voce d’oro

Kurtz è il cuore del romanzo, ma anche il suo fantasma. Lo incontriamo solo alla fine, morente, delirante, ma la sua ombra incombe su ogni pagina. Chi è davvero? Un genio? Un mostro? Un profeta corrotto? Un uomo che si è “fatto Dio” in mezzo alla foresta?

Tutti i personaggi ne parlano, lo descrivono in modo contraddittorio, come se fosse un mito. Ma l’unica verità ce la dà lui, poco prima di morire, con quell’urlo che resta nella storia della letteratura: “L’Orrore! L’Orrore!”

Due parole. Due colpi secchi. Due fendenti che tagliano l’anima del lettore. Kurtz ha guardato dentro l’abisso e ha visto qualcosa che non può essere raccontato. Ma che ci riguarda. È l’orrore della natura umana lasciata senza freni. È il potere che diventa delirio. È la civiltà che si rivela maschera.

Il colonialismo come specchio

Conrad non è un moralista, né un attivista. Non scrive pamphlet politici. È un narratore, e lascia che siano le immagini a parlare. Ma quelle immagini parlano forte: il colonialismo è una macchina di morte, mascherata da missione civilizzatrice. Gli europei non portano la luce, ma l’avidità. Non costruiscono, ma distruggono.

E qui arriva la parte più disturbante del romanzo: non c’è una vera alternativa. Non ci sono “i buoni”. Non c’è redenzione. Solo ambiguità. Solo uomini che si illudono di dominare la natura e invece vengono risucchiati nel suo caos. Kurtz non è un’eccezione: è il destino logico di chi crede che il potere e la razionalità occidentale possano controllare tutto.

Un romanzo psichedelico, esistenziale, eterno

Cuore di tenebra non è solo un classico della letteratura. È una droga. Una sostanza allucinogena che altera la percezione del reale. Leggendolo ti sembra di sentire davvero il battito della giungla, il rumore dei tamburi, la follia che serpeggia negli uomini civilizzati. E quando lo chiudi, capisci che qualcosa ti è rimasto attaccato. Una domanda, una fitta, un disagio.

È anche un testo filosofico, che anticipa l’esistenzialismo e i dilemmi morali del Novecento. È stato fonte d’ispirazione per Apocalypse Now (e mille altri racconti “di discesa negli inferi”) e continua a generare dibattito. È razzista? Anticolonialista? Ambiguo? Tutto insieme, probabilmente.

Ma soprattutto è uno specchio. E non sempre quello che riflette ci piace. Per questo continua a tormentarci. Perché Cuore di tenebra non finisce con l’ultima pagina. Inizia.

sabato 21 giugno 2025

Il Gioco Dei Soldi (2010)

 
Regia: George Hickenlooper 
Anno: 2010
Titolo originale: Casino Jack
Voto e recensione: 5/10
Pagina di IMDB (6.2)
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Visto “Il Gioco dei soldi” (titolo originale Casino Jack) mi sono reso conto che il vero problema non è tanto il film… ma che io, di lobbying americana, capisco quanto un pesce rosso capisce di biliardo. Cioè: vedo che girano palline, ma non ho idea delle regole.

La pellicola segue le gesta (e le furbate) del lobbista Jack Abramoff, interpretato da un Kevin Spacey che fa il suo mestiere dignitosamente. Peccato che il film, girato tutto dal punto di vista del protagonista, sembri più un tentativo di giustificare il personaggio che di spiegare davvero cosa cavolo sia successo.

Ci si perde in una narrazione che strizza l’occhio alla commedia nera e al biopic ammiccante, ma che alla fine lascia con una sensazione fastidiosa: non ho imparato nulla, e nemmeno mi sono divertito granché. L’America dei giochi di potere resta lontana, fumosa e opaca. Anche perché il sistema delle lobby, lì, è una roba quasi legale e codificata. Da noi se provi solo a sussurrare “intermediazione opaca” ti arriva una denuncia prima ancora del caffè. Denuncia con un nulla di fatto, ma siamo già nel campo dell'illegalità,

Insomma, Il Gioco dei soldi tenta di essere uno sguardo cinico e affilato sul potere e la corruzione. Ma se non conosci bene le regole del gioco (io no), il risultato sembra più un riassunto confuso di un processo che avresti preferito vedere su Wikipedia, magari spiegato da Barbero.

Voto personale: 5 politico. O anche lobbistico.
Senza infamia, ma con molta nebbia.


venerdì 20 giugno 2025

Note al Calasole a Marina di Cecina

 


Fino a un mese fa, la musica classica per me era un vago sottofondo da sala d’attesa ben arredata. Poi Letizia mi ha messo in cuffia i Notturni di Chopin, e qualcosa si è mosso.
Quel pomeriggio assolato, sdraiato a occhi chiusi, ho visto tende svolazzanti, giardini all’italiana, una caraffa di limonata.
Da lì, a una serata tra gli alberi con violino, violoncello e pianoforte, il passo è stato breve.

Siamo andati insieme a Cecina, alla Riserva Naturale dei Tomboli Sud, per l’evento inaugurale di Note al Calasole, nuova rassegna di musica al tramonto. Il primo concerto si teneva questa sera , con il Trio Boschis–Agostini–Persichini, che ha eseguito brani di Beethoven e Sibelius.

Non so spiegare i dettagli tecnici, e non ne ho la pretesa. Però posso dire che c’era qualcosa di potente nell’ascoltare queste composizioni tra gli alberi, con la luce del giorno che scivola via, le voci basse del pubblico e il profumo di pineta mescolato alle note.
Un palco discreto, armoniosamente inserito nel verde, senza fronzoli. Pubblico vario, tra habitué col programma piegato in quattro e curiosi come me, con poca teoria ma tante orecchie.

Il progetto, curato dal critico Sandro Cappelletto e dal Maestro Federico Rovini, nasce per valorizzare non solo la musica ma anche il paesaggio: il concerto come esperienza totale, naturale, accessibile, pensata per chi esce dal mare o semplicemente dal caos quotidiano. E funziona.
L’atmosfera era quella giusta per chi, come me, è ancora in fase di addestramento: niente sale intimidatorie o palchi da conservatorio, ma uno spazio reale, con il sole che tramonta e il vento che ti sfiora le spalle.

Mi ha fatto venire voglia di sentire ancora qualcosa, magari in un ambiente più raccolto, più immersivo.
Non perché la pineta non bastasse – anzi – ma perché quando una cosa ti piace, vuoi provarla da un’altra angolazione. Un po’ come col vino: la prima volta lo bevi distratto, la seconda cominci ad annusarlo.

Grazie Letizia per la spinta, e grazie Cecina per il contesto.
Con calma, anche la classica si conquista terreno.