domenica 27 luglio 2025

Zorro, Un Eremita Sul Marciapiede

 


Ieri sera, nella cornice struggente di Piazza Bovio – che da sola meriterebbe una standing ovation eterna – ho assistito a Zorro – Un eremita sul marciapiede, monologo interpretato da Sergio Castellitto e scritto da Margaret Mazzantini. Evento gratuito, ma con prenotazione obbligatoria. Roba seria. E meritata.

Difficile mettere in fila le emozioni.
Sì, perché Castellitto non ha semplicemente recitato un testo. È entrato in un’altra pelle. Ha preso le parole, le ha masticate e poi sputate fuori con un’intensità che ti lasciava senza fiato. Una performance che, se sei vivo, non può non toccarti. Se sei morto dentro, ti fa almeno una carezza al cuore.

Il monologo racconta la storia di un uomo che ha perso tutto: lavoro, famiglia, dignità, e si ritrova a vivere per strada. Un clochard, sì, ma con l’anima pulsante. Con un cane simbolico nel nome – Zorro – e una visione acuminata di noi, "i normali", che lui chiama cormorani.
E lì, tra riflessioni amare, sarcasmi lucidissimi e improvvisi squarci poetici, emerge una verità: Zorro è Castellitto, Castellitto è Zorro. Non c'è distinzione. C’è solo un uomo – forse tanti uomini – che provano a resistere mentre il mondo li schiaccia. E lo fanno come possono: parlando, raccontando, camminando a piedi scalzi sul marciapiede della vita.

Il testo della Mazzantini è di quelli che non cercano applausi, ma ti piantano un chiodo nel petto. Castellitto, con quella voce graffiata e quel corpo che sembra stanco come il personaggio, gli dà vita in modo spiazzante. Ogni pausa è un colpo. Ogni sguardo al cielo, un grido. Un film nella nostra mente. 

Piazza Bovio, con il mare alle spalle, sembrava il luogo perfetto per questo naufrago d’asfalto. 

Ecco, Zorro non è uno spettacolo da vedere.
È una ferita da sentire. E da portarsi a casa.




venerdì 25 luglio 2025

Microblade WESN

 


Graditissimo regalo da parte dei Gettons, ricevuto con anticipo rispetto al compleanno, e come da tradizione furba: se puoi fare una cosa subito, è una perdita di tempo aspettare. Aprirlo in anticipo è stato anche un test psicologico: volevo saggiare l’ira di chi lo ha regalato. È andata bene. Nessuna testata nel muro, ma ha attaccato. 

Il protagonista è lui: il Microblade WESN, coltello da tasca grande quanto una chiavetta USB, ma solido come un cavatappi da trincea. Per chi non lo conosce, parliamo di un aggeggino lungo meno di 6 cm da chiuso, con una lama affilata e testarda in acciaio D2, un frame in titanio e una faccia da bravo ragazzo che però ha visto cose.

L’edizione ricevuta è brandizzata VER — dettaglio che me lo rende ancora più personale. Sta nel palmo della mano, ma non è un giocattolo: è un coltello vero, fatto per tagliare, aprire, incidere, e ricordarti che ogni tanto nella vita è giusto essere affilati.

Certo, non posso portarlo in aereo — la TSA, l’ENAC, la NATO e pure il prete del mio paese non lo permetterebbero. Ma lo porterò con me in Alto Adige, magari per difendermi da eventuali attacchi di orsi. Oppure potrebbe stare sotto al cuscino per usarlo contro i malcapitati che mi svegliano a notte fonda nei rifugi solo perché pensano che stia russando.

È un oggetto bello, essenziale, moderno, che dà soddisfazione al solo tenerlo in tasca. Si apre con un dito, si richiude con un click secco. Ti fa sentire pronto a tutto, anche solo per tagliare il laccio dei biscotti secchi nella pausa trekking.

Insomma: regalo riuscitissimo. Il Gettons promosso a pieni voti. E se qualcuno me lo invidia, lo capisco. Ma non glielo presto. Al massimo gli taglio una fetta di speck.


🎯 COSA FUNZIONA

  • Design compatto ma robusto: 5,7 cm da chiuso, 3,8 cm di lama — praticamente nascosto nel palmo, ma la sensazione in mano è sorprendentemente solida. Ti dà subito l’idea che non è un giocattolo.

  • Materiali top: titanio grado 5, acciaio D2 per la lama — roba seria, pensata per durare, mantenere l’affilatura e reggere botte. Niente plastichina cheap.

  • Meccanica fluida: apertura a flipper su cuscinetti in ceramica. Si apre con una mano. Lo chiudi con la frame lock che fa click e ti senti subito tipo "uomo del bosco contemporaneo".

  • EDC vero: lo attacchi al portachiavi o lo metti nella tasca dei jeans senza che dia noia. Zero peso, ma sempre lì quando serve.


🧠 COSA DEVI SAPERE

  • Non è fatto per batonare la legna o scuoiare un cinghiale. È un coltello da taglio urbano intelligente: aprire pacchi, tagliare una corda, pelare una mela in cima a un monte.

  • Il manico è piccolo: se hai mani grandi, lo impugni con due dita e mezza. Ma non scivola, e il grip col frame in titanio  è buono.

  • Essendo brandizzato VER... è un pezzo unico. Quasi da collezione.


🔥 

Il Microblade è un piccolo gioiello di ingegneria EDC. Non è un coltellino multiuso da campeggio anni '80, è un oggetto moderno, essenziale, che comunica stile, funzionalità e cura. Perfetto per uno come te (nel senso me) che ama gli oggetti ben fatti, che durano, che si portano con disinvoltura… ma anche con un pizzico di orgoglio.

Insomma, è il tipo di coltello che ti viene voglia di mostrare agli amici — ma solo quelli che capiscono.


The Imitation Game (2014)

 
Regia: Morten Tyldum
Anno: 2014
Titolo originale: The Imitation Game
Voto e recensione: 7/10
Pagina di IMDB (8.0)
Pagina di I Check Movies
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Ci sono film che ti colpiscono per la storia che raccontano, e altri che ti colpiscono per come la raccontano. The Imitation Game riesce a fare entrambe le cose, e lo fa con una delicatezza e una potenza emotiva che non mi aspettavo.

La vicenda di Alan Turing la conoscevo a grandi linee: il genio matematico che ha contribuito a decifrare Enigma, accelerando la fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma il film riesce ad andare oltre la biografia e costruisce un ritratto intimo, quasi doloroso, di un uomo brillante e allo stesso tempo isolato, inadatto ai meccanismi sociali, ingabbiato in un’epoca che non era pronta per accettarlo.

Benedict Cumberbatch è strepitoso. Riesce a rendere Turing umano e spigoloso, vulnerabile e arrogante, a tratti tenero, a tratti insopportabile. Non è l’eroe hollywoodiano classico, e proprio per questo funziona: ci credi. Ti commuove. Ti arrabbia.

Il film è ben costruito, alterna le linee temporali con equilibrio, e tiene alta l’attenzione anche quando sai già come va a finire. E non parlo solo del codice Enigma, ma del destino tragico che tocca a Turing per il solo fatto di essere omosessuale. Quella parte colpisce duro. Il modo in cui viene trattato dallo Stato che lui stesso ha aiutato a salvare fa più rumore di mille esplosioni belliche. È un pugno nello stomaco. Ed è giusto che lo sia.

The Imitation Game non è solo un film biografico. È una riflessione amara sul genio, sulla diversità e sulla stupidità umana. Ma è anche un omaggio a chi ha fatto la differenza restando ai margini, combattendo battaglie invisibili. Un film che emoziona, senza essere ruffiano. E per me, questo, vale oro.



mercoledì 23 luglio 2025

The Master (2012)

 
Regia: Paul Thomas Anderson
Anno: 2012
Titolo originale: The Master
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.1)
Pagina di I Check Movies
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Non è un film facile The Master. È un’opera che vive di suggestioni, silenzi, ambiguità, e più che raccontarti una storia ti trascina dentro a una dinamica psichica, disturbante e ipnotica, fatta di manipolazione, dipendenza, carisma e debolezza. Onestamente? Se non ci fossero stati loro – Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman e Amy Adams – probabilmente l’avrei trovato noioso. Ma il cast è talmente incredibile da sollevare tutto, a tratti fino al sublime.

Il personaggio interpretato da Hoffman, Lancaster Dodd, è un chiaro riferimento – anche se mai dichiarato esplicitamente – a L. Ron Hubbard, fondatore di Scientology. E la “Causa” che guida i suoi seguaci con vaghi riferimenti alla reincarnazione, al controllo mentale e alla purificazione del passato ricorda molto da vicino quella controversa setta mascherata da filosofia.

Il protagonista Freddie Quell (Phoenix), reduce di guerra e alcolizzato, è il perfetto recipiente da riempire. Una specie di esperimento umano per la setta, ma anche un bambino sperduto che cerca disperatamente una figura guida. La loro relazione è morbosa e straniante, a tratti perfino tenera, ma mai rassicurante. Come se dietro ogni abbraccio ci fosse una stretta al collo in agguato.

Un piccolo aneddoto personale: da adolescente, ignaro delle derive settarie, lessi con gran trasporto "Battaglia per la Terra" (sì, proprio di quel Hubbard). Mi piacque pure abbastanza, anche se ora mi viene da sorridere. Qualche tempo dopo, mio fratello trovò un altro libro di Hubbard in un mercatino e pensò bene di regalarmelo. Lo iniziai con estrema difficoltà. Dopo qualche pagina, un dubbio. Dopo qualche altra, lo sconforto. Era un "manuale" di Scientology. E non c’era nemmeno Google per togliersi subito lo sfizio di capire che roba fosse. Solo pagine e pagine di delirio.

Ecco, The Master fa venire un po’ quella stessa sensazione: ti seduce, ti incuriosisce, ma sotto sotto ti fa capire che c’è qualcosa di profondamente disturbante. E quando i titoli di coda scorrono, non sei sicuro di essere stato testimone di un’illuminazione o di un lavaggio del cervello ben confezionato.

Ma una cosa è certa: il cinema di Paul Thomas Anderson resta un’esperienza. E in questo caso, con un Phoenix completamente fuori controllo e un Hoffman ieratico, vale il viaggio anche solo per guardarli affrontarsi in quei dialoghi tirati come corde di violino.

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lunedì 21 luglio 2025

Lois McMaster Bujold - Miles Vorkosigan L'Uomo Del Tempo

 Miles Vorkosigan. L'uomo del tempo
Autore: Lois McMaster Bujold
Anno: 1990
Titolo originale: Wheatherman
Voto  e recensione: 3/5
Pagine: 124
Acquista su Amazon 
 
Trama del libro e quarta di copertina:
 Dopo aver completato l'Accademia Imperiale, il cadetto, tenente Miles Vorkosigan, figlio del primo ministro di Barrayar, nonostante i pesanti handicap fisici ambirebbe entrare nella Marina Imperiale, invece si vede assegnato un incarico di secondaria importanza nel corpo di Fanteria e relegato su una remota isola ghiacciata del pianeta per svolgere mansioni di meteorologo, materia di cui non sa niente. Non può credere ai propri occhi, quando il vecchio sergente dell'Accademia gli consegna la busta con gli ordini, ma dopo un turbolento colloquio con il comandante, capisce che dietro quella mansione c'è il disegno di formare il suo carattere per una carriera ben più importante. Sembra quindi che il periodo che dovrà trascorrere sull'isola Kyril, situata a pochi chilometri dal circolo polare, debba essere unicamente una dura gara di resistenza alle proibitive condizioni del posto, ma, si sa che quando c'è di mezzo Miles Vorkosigan i guai e le complicazioni gli si attaccano addosso e lo obbligano a mettersi in gioco per risolverli.
 
Commento personale e recensione:
 Letto tutto d’un fiato sotto l’ombrellone, mentre il mare era placido e i vicini ciarlavano beati: “L’uomo del tempo” è una piccola gemma nel vasto universo dei romanzi di Bujold dedicati a Miles Vorkosigan. E per piccola intendo sia come lunghezza che come formato – ma non come intensità.

Siamo su Barrayar, ma lontani dalle trame di palazzo o dai campi di battaglia. Qui c’è una tranquilla stazione meteorologica tra i ghiacci, isolata dal mondo, che ovviamente tanto tranquilla non resterà. Perché ovunque vada Miles, i guai lo seguono come una nuvola radioattiva.

Miles Vorkosigan è uno di quei personaggi che ti rimangono incollati addosso. Non è il classico eroe tutto muscoli e carisma: è fragile, deforme, iperintelligente, con una lingua più affilata di una lama di plasma e una testardaggine degna di miglior causa. E sì, è raccomandato: figlio di papà, cresciuto in ambienti nobili, ma che cerca (spesso goffamente, spesso genialmente) di guadagnarsi un suo posto nel mondo militare. E in questo racconto breve, ce la mette tutta, tra malintesi, sospetti e una tensione che cresce come una bufera in arrivo.

La Bujold, che non conoscevo, non sbaglia un colpo. Ha il talento raro di infilare personaggi vivi, dialoghi brillanti e ambientazioni credibili anche in poche pagine. Questa storia si legge velocemente, ma lascia quella piacevole sensazione di aver fatto un giro completo, di aver vissuto un’avventura compatta ma intensa.

Un ottimo modo per avvicinarsi alla saga di Miles, oppure per rituffarcisi dentro con leggerezza.
E diciamolo: serve coraggio per scrivere un personaggio come Miles. Uno che non può contare sul fisico, ma che ribalta tutto grazie al cervello, al cuore e a una buona dose di faccia tosta.

Se cercate una space opera d’azione, qui c’è poco da sparare. Ma se volete una storia intelligente, ironica e umana, infilatevi questa tra una nuotata e una birra fresca. Dura poco, ma si fa ricordare.



sabato 19 luglio 2025

Robert Reed - Un Miliardo Di Donne Come Eva



 Autore: Robert Reed
Anno: 2006
Titolo originale: A Billions Of Eves
Voto e recensione: 3/5
Pagine: 116
Acquista su Amazon

Trama del libro e quarta di copertina:
L'invenzione del Ripper, il sistema che permette di oltrepassare le soglie dell'infinito multiverso che ci circonda, ha consentito all'umanità di trasferirsi con viaggi senza ritorno su miliardi di mondi abitabili, gemelli del nostro. Il primo colonizzatore fu un giovane di nome Owen che decise di diventare l'unico colono maschio del nuovo pianeta e partì dalla Terra portando con sé un intero collegio femminile... contro la volontà delle ragazze. Owen in seguito venne considerato il fondatore delle nuove nazioni umane nell'universo e Padre-profeta della religione del "Testamento del Primo Padre". Ma la diaspora umana rischia di distruggere l'intero universo perché i miliardi di coloni arrivati sui nuovi pianeti hanno portato con sé specie animali e vegetali che tendono a schiacciare e sostituire quelle autoctone. In una organizzazione sociale ottusa e maschilista, una giovane donna comprende i segni dell'imminente catastrofe e agisce suo malgrado per creare una nuova società umana che sappia integrarsi e vivere con rispetto sui nuovi mondi. Premio Hugo 2007.

Commento personale e recensione:

C’è qualcosa di disturbante e affascinante al tempo stesso nell’idea che l’umanità abbia più volte provato a “rifare da capo”. Come un videogiocatore frustrato che resetta la partita ogni volta che sbaglia una mossa, in Un miliardo di donne come Eva Robert Reed ci butta in un mondo (anzi, in uno dei molti mondi) in cui l’umanità si è ricreata più e più volte, ogni volta inseguendo un ideale di purezza, ordine e, ovviamente, controllo.

Reed ci offre un racconto breve — forse troppo breve — che sa di estratto, di teaser, di assaggio di un universo narrativo più grande e inquietante. Al centro, la figura di Eva. O meglio: le Eva. Cloni? Archetipi? Simboli? Donne usate e modellate in una società dove la religione, la morale e il potere sono fusi in una teocrazia onnipresente che governa tutto, dalla nascita al pensiero.

Il testo gioca con l’idea che il mondo (o meglio, i mondi) possano essere costruiti a misura di un dogma, in un esperimento continuo di ingegneria sociale. Ma dietro l’utopia del "mondo perfetto" si nasconde la distopia della ripetizione, del sacrificio, dell’annullamento dell’identità. Reed non te lo dice a chiare lettere — ed è proprio qui che il racconto fa centro: nei silenzi, nei non detti, nei dettagli lasciati sospesi.

Certo, ci si ritrova a volere di più. Il racconto è elegante nella scrittura ma lascia il lettore quasi frustrato: troppe idee, troppi spunti appena accennati. La teocrazia, il ruolo delle donne, i rapimenti , il libero arbitrio, la giustizia... Un florilegio di temi che meriterebbero il respiro di un romanzo.

Ma forse è proprio questo il punto: Reed ci regala un frammento che funziona come provocazione. Non ci dà tutte le risposte, ma ci spinge a porci le domande giuste. E in tempi in cui si sogna spesso di "ricominciare tutto da zero", forse serve proprio qualcuno che ci ricordi quanto può essere pericoloso farlo dimenticando ciò che ci rende umani. E ciò che prima o poi distruggerà il nostro mondo, anche biologicamente.