mercoledì 4 giugno 2025

The Night Of - Cos'è Successo Quella Notte?

 
Anno: 2016
Titolo originale: The Night Of
Numero episodi: 8
Stagione: 1

Mi sono approcciato a The Night Of con una certa curiosità ma senza aspettative esagerate anche se ci sono capitato dopo aver visto un reel entusiasta di uno sconosciuto. Lo ammetto: pensavo fosse l’ennesima miniserie HBO ben confezionata, con il classico impianto crime in stile americano – avvocati brillanti, indagini zoppicanti, e qualche colpo di scena prevedibile. E invece, sorpresa: questa serie mi ha fregato. In senso buono.

Al centro c’è il giovane Nasir "Naz" Khan, interpretato con notevole intensità da Riz Ahmed, un ragazzo pakistano-americano che si ritrova invischiato in un omicidio che sembra uscito da un incubo. La serie ci porta in un’odissea giudiziaria e umana in cui la presunzione d’innocenza viene accartocciata e buttata nel cestino, in nome di una verità da costruire a tavolino. Ma il vero colpo da maestro? John Turturro.

Sì, lui. L’avvocato John Stone, scalcagnato, allergico al mondo (letteralmente: soffre di eczema ai piedi), che si trascina tra le aule di tribunale e i marciapiedi di New York come un Don Chisciotte del codice penale. È l’anima della serie. Il suo personaggio, scritto e recitato con una malinconia e un’ironia quasi dolorosa, riesce a rubare la scena in ogni inquadratura, anche quando parla con un gatto. Anzi, soprattutto quando parla con un gatto.

La narrazione è lenta ma non noiosa, chirurgica nel costruire tensione e disagio. Ogni episodio scava più a fondo nel sistema giudiziario, nella psiche dei protagonisti e nella zona grigia della verità. The Night Of non ti dà risposte facili. Ti fa dubitare, ti fa arrabbiare, ti fa guardare il mondo con quel sospetto che solo una buona serie può insinuarti addosso.

Ci sono momenti in cui sembra quasi voler diventare una riflessione sociopolitica (razza, classe, giustizia), ma riesce a non diventare mai didascalica. Resta prima di tutto un noir urbano: sporco, opprimente, quasi claustrofobico. Anche quando sei fuori dal carcere, l’aria non è mai davvero pulita.

Conclusione? The Night Of è una miniserie che ti prende alla gola senza bisogno di urlare. Il ritmo è più da romanzo che da serie binge-friendly, ma proprio per questo resta impressa. Un piccolo gioiello nel mare magnum delle crime-series, in cui ogni dettaglio (persino una camicia sbagliata) può farti crollare.



lunedì 2 giugno 2025

San Leo, Pennabilli e ancora San Marino

 


 


Oggi la sveglia è stata più umana. Il programma era meno fisico ma decisamente più denso di storia, magia e poesia. Prima tappa: San Leo, che già dal nome sa di cavallo bianco e cronache medievali. Un borgo incastonato su un enorme sperone di roccia calcarea, che domina la Valmarecchia come un’aquila in posa. Arrivarci è un po’ come fare ingresso in un dipinto del Romanticismo: strade strette, silenzio irreale, e la fortezza lassù, che ti guarda da secoli come se stesse valutando se lasciarti entrare.

Ed è proprio quella fortezza, oggi museo, a custodire una delle storie più affascinanti e inquietanti d’Italia: la prigionia e la morte del Conte di Cagliostro. Alchimista, truffatore, guaritore, iniziato e massone – ma aveva anche dei difetti – fu imprigionato qui nel 1791 per volere dell’Inquisizione. Morì quattro anni dopo, consumato dall’isolamento e, forse, dai suoi stessi segreti. La sua cella, il famoso “pozzetto”, è ancora lì: claustrofobica, gelida, muta. Ma non priva di una certa inquietudine vibrante. E tu, mentre sbirci dentro, ti chiedi se stia ancora recitando l’ultima formula.

Lasciata San Leo con le ossa ancora tiepide di sole, mi sono diretto a Pennabilli, piccolo gioiello appenninico e terra adottiva di Tonino Guerra. Il poeta, sceneggiatore e artista ha disseminato il borgo di installazioni, frasi, spazi sospesi e un vero e proprio museo a cielo aperto  che si esplora come una caccia al tesoro dell’anima.

Tra l’orto dei frutti dimenticati, la meridiana dell’incontro, l’angelo coi baffi e i luoghi dell’anima, Pennabilli ti obbliga a rallentare. A guardare le cose con occhi diversi. A fermarti davanti a una pietra su cui è scritto “Gianni, l'ottimismo è il profumo della vita”. E capire che non serve molto altro. In realtà non c'è quella frase da nessuna parte, ma sarebbe stato ganzo visto che è stata ideata da lui. 

Il caldo bestiale di questi giorni non ha fatto sconti, ma oggi almeno c’era vento. E per chi cammina (o si perde tra i pensieri), fa tutta la differenza del mondo. Tra le tante piccole cose fatte a Pennabilli, ho anche suonato la campana tibetana gigante, detta Campana Chasa . Un gesto simbolico che secondo alcuni porta bene, secondo altri fa semplicemente vibrare qualcosa dentro. In ogni caso, l’ho fatto. E ho espresso che nella mia prossima avventura io possa incontrare uno stegosauro. Non so dove, né come, ma non ha importanza.

Il pomeriggio è stato lungo e polveroso, ma la serata l’ho dedicata di nuovo a San Marino, approfittando delle ore più fresche e del fascino notturno che il borgo regala con generosità. Un ritorno, sì, ma con uno sguardo diverso. Come spesso accade: quando torni in un posto dopo averlo vissuto davvero, non lo guardi più con gli stessi occhi.

E anche oggi, tra storia, vento e poesia, ho fatto il pieno di stimoli. E un po’ di magia.


domenica 1 giugno 2025

Grande Anello di San Marino

 

Penultimo giorno del weekend e, come da programma, si parte all’alba (quasi) per il trekking più completo che sono riuscito a scovare su Wikiloc. Venti chilometri, oltre mille metri di dislivello positivo, e un circuito che incrocia diversi tratti del Cammino del Titano (o Cammino di San Marino, a seconda delle fonti), in particolare i sentieri 1 e 2, con deviazioni benedette anche da qualche cartello della Via di San Francesco.

Partenza da Acquaviva, zona tranquilla e ancora addormentata. Pronti-via e mi trovo subito davanti al Sacello del Santo Marino, una piccola cappella incastonata nella roccia che segna, secondo tradizione, il luogo in cui tutto è cominciato. C’è anche la targa a ricordare quella famosa data – 301 d.C., sì, mitica quanto simbolica – in cui San Marino fondò la comunità che avrebbe poi dato origine alla Repubblica più longeva del mondo. Un inizio suggestivo, intimo, quasi spirituale. Ma poi la salita chiama, e tocca rispondere.

Lungo il percorso, complice la voglia di esplorare, apporto qualche modifica alla traccia originale e scelgo di passare per due vecchie gallerie pedonali, che un tempo erano parte del tracciato ferroviario Rimini–San Marino, attivo fino al 1944. Dopo i bombardamenti della guerra, la linea non è mai stata riaperta, ma le gallerie sono state recuperate e oggi si attraversano a piedi con un certo gusto retrò.

Arrivo sorprendentemente presto in centro, quando San Marino è ancora semi deserta, i bar ancora chiusi, i vicoli avvolti da un silenzio irreale. Alle 8:15 sono già davanti alla Prima Torre, e mi viene quasi da ridere: mi aspettavo di metterci molto di più. Così rallento. Faccio colazione con vista, mi godo l’attesa dell’apertura e decido di cominciare dalla Seconda Torre (Cesta), che domina ancora più in alto, dove il vento non scherza mai.

Con il biglietto cumulativo visito più spot, mi concedo un po’ di sana contemplazione turistica e poi – zaino in spalla – riprendo l’anello, che fino a quel momento avevo sottovalutato.

Da lì in poi il percorso si fa tosto e variegato: salite, discese, tratti attrezzati con corde e cavi, niente di difficile con il terreno asciutto, ma chiaro che con la pioggia servirebbero eccome. Passo per il Sentiero della Rupe, spettacolare e a tratti a strapiombo, poi la grotta-santuario della Tanaccia, luogo di culto scavato nella pietra, che ha quel misto di mistero e misticismo che ti spinge a rallentare.

Attraverso due fossi da guadare – il Mazzucchetto e il Montecchio – l’acqua è poca, ma comunque dà gusto. Seguo il Sentiero dei Mulini Canepa, tra vecchi ruderi e fresche radure, e chiudo il cerchio attraversando alcuni campi assolati, dove ogni passo sembra prosciugarti la schiena.

Arrivo a fine anello sudato, cotto, ma soddisfatto. Un trekking completo, più duro del previsto per 40 gradi percepiti , ma con paesaggi sorprendenti, una varietà di ambienti continua e un senso di libertà assoluta. San Marino non è solo torri, targhe e souvenir: è anche boschi, creste, storia viva che si intreccia con i sentieri.

Ed è proprio questa miscela – tra leggenda, roccia e gambe che faticano – che rende tutto memorabile.


Album fotografico Grande Anello di San Marino 


sabato 31 maggio 2025

San Marino in avanscoperta

 


Dopo la full immersion tra Gradara, Tavullia e Mutonia, il pomeriggio ha preso una piega più rilassata… ma non troppo. Sono approdato a San Marino, più precisamente alla Dogana, la parte bassa della Repubblica, fuori dal centro storico vero e proprio. Niente torri, niente panorama a picco, ma una comoda base logistica per quello che mi aspetta domani: il super trekking sanmarinese, che promette salite e sentieri tra torri, boschi e confini invisibili.

Oggi però ho fatto il bravo turista e mi sono concesso un sopralluogo strategico: parcheggi individuati (non si sa mai, coi trekking bisogna giocare d’anticipo), e poi via verso il cuore alto del microstato con la tipica funivia, che da Borgo Maggiore ti spara in pochi minuti dritto dentro la cartolina.

Il centro storico di San Marino è un gioiellino, incastonato nella roccia del Monte Titano, con vicoli medievali, scorci improvvisi e quel mix affascinante tra Repubblica antichissima e turismo spinto. È un posto che sa vendersi bene, ma con orgoglio: ogni insegna, ogni bandiera, ogni torre racconta una storia di indipendenza lunga secoli. Un piccolo stato nato nel 301 d.C. che ancora oggi resiste con la propria moneta (ok è l'euro, ma lo battono loro con propri disegni) , le proprie leggi, e quel pizzico di bizzarria istituzionale che lo rende unico.

Mi sono lasciato trasportare tra una camminata e l’altra, prendendo nota di cosa rivedere con calma: la Prima Torre (Guaita), ovviamente, ma anche la Basilica del Santo, qualche museo strambo (quello delle torture è sempre lì a tentarmi), e soprattutto le vedute mozzafiato che meritano una giornata intera e meno fretta.

A sorpresa mi sono imbattuto anche in uno spettacolo dei balestrieri e degli sbandieratori: panni svolazzanti, tamburi, archi e piccole esplosioni di colore contro il cielo terso. Un tocco folkloristico che, pur nella messa in scena per turisti, riesce comunque a emozionare. Forse perché qui la Storia si sente ancora sotto i piedi, nella pietra, e negli stendardi appesi ai balconi.

Il pomeriggio si è chiuso con un aperitivo analcolico con vista, che più panoramico di così non si poteva: l’occhio spaziava tra le colline romagnole, la costa in lontananza e qualche falco che danzava nell’aria calda. Una pausa meritata, tra studio e contemplazione. E a cena con la Champions... (vediamo se Bergomi a sto giro piange per bene) 

Domani si parte sul serio. Zaino in spalla, scarponi allacciati e via tra le torri. Oggi San Marino mi ha dato un assaggio. Ma il piatto forte deve ancora arrivare.


Album fotografico Sopralluogo turistico a San Marino 


Castelli, motori e rottami ribelli

 


Dopo la suggestiva passeggiata notturna a Gradara di ieri sera – mura illuminate, silenzi irreali e un’atmosfera da fiaba gotica messa in scena tra ristorantini e scalinate in pietra – oggi la sveglia ha suonato presto. Non troppo presto per i miei standard in realtà, ma la giornata meritava lo sforzo: avevo prenotato una visita guidata (privata visto che ero l'unico) alla rocca e al castello di Gradara. E non volevo perdermi neanche una pietra.

In solitaria, ma accompagnato da una guida preparatissima (e per fortuna anche simpatica), ho ripercorso corridoi, merli e stanze affrescate, mentre fuori il borgo cominciava appena a stiracchiarsi sotto il primo sole estivo . È un luogo che vibra di storia, ma anche di storie. E come spesso capita in Italia, le due cose si confondono e si alimentano a vicenda.

Il mito di Paolo e Francesca, ad esempio, aleggia su ogni cosa. Dalla camera dove si narra si siano amati (e poi trafitti), fino alla finestra che forse, chissà, ha visto l’ultima luce prima della tragedia. La guida citava Dante con voce solenne, ma io avevo in testa più che altro quel verso che da sempre mi fulmina:
"Amor, ch'a nullo amato amar perdona".
E poi giù, fino a quel “galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse” che, in fondo, condanna tutti noi lettori e sognatori irriducibili.

Ma Gradara non è solo questo. È un microcosmo medievale ben conservato (o ben restaurato, a seconda dei gusti), con un mix sorprendente di rigore architettonico e vezzo turistico. Un equilibrio fragile, ma affascinante. E poi il castello vero e proprio: sala delle torture, camminamenti, il giardino pensile… una macchina del tempo perfettamente oliata.

Salutata Gradara – con un ultimo sguardo alla torre che pare guardare il mare – ho fatto rotta verso una delle mie piccole mete del cuore: Tavullia.

Per chi non lo sapesse (ma davvero? Ma come si fa?), Tavullia è il paese natale di Valentino Rossi, il numero 46 più iconico della storia delle due ruote. Per me, che sono cresciuto negli anni d’oro delle sue vittorie, entrare a Tavullia è un po’ come per un beatlemaniac entrare ad Abbey Road: si respira leggenda.
Il paese è letteralmente tappezzato di VR46, dai murales al negozio,  ufficiale. Ho fatto un rapido giro, senza grandi pretese, giusto un saluto – come si fa con un vecchio amico che non si vede da un po’, ma che si continua a stimare come il primo giorno.

Poi il gran finale della giornata: Mutonia.

E qui il merito va tutto a Riccardo B., che  ne aveva parlato con gli occhi accesi. E aveva ragione.
Mutonia è un insediamento artistico alle porte di Santarcangelo di Romagna, fondato da un collettivo di artisti inglesi, punk, anarchici e decisamente fuori scala. Uno di quei luoghi che sfuggono a qualsiasi etichetta: non è un museo, non è un campeggio, non è una galleria. È un pezzo di mondo parallelo, fatto di sculture meccaniche, robot costruiti con rottami, installazioni post-industriali degne di un film di Terry Gilliam o di Mad Max.

Passeggiare a Mutonia è come sfogliare un manuale di sogni arrugginiti: motociclette mutanti, animali meccanici, turbine che sembrano pronte a decollare. E un senso di comunità libero e ostinato, dove la creazione è quotidianità e la follia è metodo.

Il medioevo poetico, l’adrenalina da corsa, l’arte della rottamazione ribelle. In poche ore, tre visioni del mondo così diverse eppure così legate dal filo invisibile della passione.

Ecco. Se non è questa la vera bellezza dei viaggi brevi, ditemi voi cos’è.


Album fotografico Gradara, Tavullia e Mutonia 


venerdì 30 maggio 2025

Al Cavo con Valentino Rossi

 


C’erano una volta, in un’epoca sospesa tra il walkman e i calzoncini fosforescenti, tre eroi da spiaggia: Saverio, Funflus ed io. Era la metà degli anni Novanta, eravamo al Cavo, all’Elba, e le giornate non finivano mai. Una partita dopo l’altra, sabbia ovunque, piedi ustionati e la netta sensazione che fossimo noi i veri campioni d’Europa.

Quel giorno ci serviva un quarto per chiudere l’ennesimo scontro epico due contro due. Stavamo palleggiando in attesa del miracolo, quando si avvicinò un ragazzetto magro, biondo, con lo sguardo da furbetto e il passo un po’ sghembo. Parlava strano, tipo romagnolo-marchigiano, anche se alcuni ancora oggi giurano fosse pisano. Nessuna fonte ufficiale, ovviamente. Solo leggende.

«Mi chiamo Valentino, vengo da Pəsa' », disse. E lì si accese qualcosa.

Io non è che fossi un esperto. Ma qualche gara in tv l’avevo vista, e il nome iniziava a girare, specie tra quelli fissati con le moto. Era appena arrivato in 125 e già faceva parlare di sé. O almeno così mi sembrò. Anche se magari era solo un biondino con l’accento curioso e un costume giallo con su stampato il numero 46. Ma a me bastò.

Giocammo a pallone con lui. Due contro due. Saverio e io contro Funflus e il ragazzo col costume giallo e il numero 46. Non servono cronache ufficiali: basta dire che in quel match, per quanto noi ce la mettemmo tutta, perse lo sport. E vinse il mito.

Non ci rivedemmo mai più. Cioè, io lo vidi eccome. In tv. Dal vivo al Mugello. In mille GP. Ma lì, su quella spiaggia dell’Elba, quel giorno, il numero 46 aveva corso la sua prima vera gara. E noi eravamo parte del suo circuito.

Oggi, a distanza di anni, ho deciso: parto. Me ne vado nelle Marche, verso Tavullia. Non ho un piano preciso. Magari lo incrocio di nuovo. Magari giochiamo un’altra partita. Magari questa volta vinco.

Oppure no. Ma sempre meglio che lavorare.