domenica 21 dicembre 2025

Montorsaio Trekking & Presepi

 
Sarò breve non perchè mi manchino le parole, ma solo perchè mi manca il tempo, quindi userò la buona vecchia modalità diario veloce. Pochi fronzoli e giusto qualche nota per tenere traccia di questo weekend. Aggiungo anche qualcosa su ieri: pomeriggio di musica classica a Suvereto dedicata a Pietro Leopoldo, aperitivo Negronella (sapore di nepitella), ultima cena (poi chiuderà "per sempre") al Castagno di Sassetta, tipico e storico locale che avrei preferito essere intramontabile. Oggi invece torniamo a Montorsaio, il paese dei presepi.
Il minuscolo borgo maremmano è arroccato come un nido di pietra, uno di quei posti che se non ci vai apposta non ci passi mai per caso. Prima però niente presepi, niente lucine, niente atmosfera natalizia: si allacciano gli scarponi e si parte.
Il giro è un anello di circa tredici chilometri, boschi fitti e silenziosi, se non fosse per qualche sparo proveniente dalla caccia, sentieri che alternano ombra e aperture improvvise sul paesaggio maremmano.  Un trekking mai estremo, ma continuo, di quelli che tengono il passo allegro e la testa sgombra.
A metà percorso si arriva alle rovine dell’antico convento di San Benedetto alla Nave. Oggi restano solo muri spezzati, archi mangiati dal tempo, ma il luogo conserva un fascino ruvido e silenzioso. Il convento risale al Medioevo ed era un punto di riferimento religioso e agricolo per l’area; il nome “alla Nave” pare derivi dalla forma dell’edificio Qui il tempo non è passato: si è semplicemente fermato e pensiamo al mito o alla leggenda (o alla sacrosanta verità) che i frati avessero molta compagnia femminile. Sapevano come zappare insomma. 
Si rientra a Montorsaio con le gambe piacevolmente stanche e a questo punto sì, ci si può concedere l’altra metà della giornata: i presepi, anche se prima entriamo nel miglior bar improvvisato mai visto e ci prendiamo una donzella (tipo una zonzella secca e schiacciata)
Montorsaio porta avanti da anni una tradizione sentita e partecipata. Durante il periodo natalizio il borgo si riempie di presepi artigianali disseminati ovunque: negli angoli delle mura, sulle finestre, dentro vecchie cassette di legno, tra le pietre dei vicoli. Non c’è niente di patinato o “da evento”, ed è proprio questo il bello. Ogni presepe è diverso, fatto con materiali poveri, recuperati, spesso costruiti dagli abitanti stessi. Passeggiare per il paese diventa una sorta di caccia gentile, uno sguardo continuo che cerca il dettaglio nascosto dietro una porta o sotto un arco.
Il contrasto tra il trekking selvatico del giorno e l’atmosfera raccolta del borgo al buio funziona alla perfezione. Montorsaio non si mette in mostra, non strilla, non seduce. 
 
Album fotografico  Montorsaio Trekking & Presepi

sabato 20 dicembre 2025

Candy Land (2022)

 
Regia: John Swab
Anno: 2022
Titolo originale: Candy Land
Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (5.3)
Pagina di I Check Movies
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 Candy Land (del 2022), diretto da John Swab, è uno di quei film che sembrano partire come un thriller indipendente qualunque e poi, scena dopo scena, ti trascinano in una spirale sempre più sporca e disturbante. Non tanto per la violenza in sé, quanto per l’atmosfera: un’America marginale, notturna, fatta di motel scrostati, strade provinciali e vite che si consumano a bordo carreggiata. In potenza andrebbe tutto bene, nei fatti invece abbiamo un sacco di punti deboli.
La storia ruota attorno a Remy (Olivia Luccardi), giovane donna appena uscita da una comunità religiosa ultra-rigida. La sua “liberazione” coincide però con l’ingresso in un mondo altrettanto claustrofobico: quello di un gruppo di sex worker che ha base in un motel di una non meglio precisata periferia del Midwest americano. Il soprannome Candy Land suona ironico fin da subito: qui non c’è nulla di dolce, solo sopravvivenza, cinismo e una costante sensazione di pericolo.
Swab gioca su due binari. Da una parte il racconto di formazione al rovescio di Remy, che passa da un controllo ideologico a uno economico e fisico (anche qui sulla carta); dall’altra un thriller strisciante, con la presenza di un serial killer che aleggia come una minaccia quasi astratta, più percepita che mostrata. Quando la violenza esplode, lo fa senza spettacolarizzazione: è secca, sporca, fastidiosa. Non funziona però troppo bene: le scene sono improvvise, scontate e ripetitive. Lo spettatore conosce già il volto del colpevole e pure il movente...
Il film non ha fretta. Anzi, a tratti sembra indugiare troppo sui dialoghi e sulle dinamiche interne al gruppo, ma è una lentezza voluta: serve a costruire un microcosmo credibile, fatto di solidarietà fragile e rivalità sotterranee. Olivia Luccardi regge bene il film sulle spalle, con un personaggio che cambia senza mai diventare davvero “eroico”. Nessuna redenzione facile, nessuna morale rassicurante.
Candy Land non è un horror tradizionale e nemmeno un thriller puro. È piuttosto un ritratto cupo e disilluso, che usa il genere per parlare di sfruttamento, controllo e illusioni di libertà. Non è un film perfetto, né particolarmente originale, si capiscono le buone intenzioni della sceneggiatura, anche se non bastano. 

La Rabbia Di Pasolini (2008)

 
Regia: Giuseppe Bertolucci 
Anno: 2008
Titolo originale: La Rabbia Di Pasolini
 Voto e recensione: 4/10
Pagina di IMDB (7.1)
Pagina di I Check Movies 
 
Questa sera con Zizzy ed il suo aiuto siamo andati alla sede piombinese del Teatro dell'Aglio,  per un cineforum su Pier Paolo Pasolini. Sono arrivato solo per la seconda parte dell'evento, ovvero quella relativa alla proiezione, mentre lei ha avuto il piacere e la forza di presenziare a tutto il resto. Lascio eventuali aspetti emotivi ed emozionali sulla pellicola in quanto, anche nonostante la nostra passeggiata peripatetica nel Bronx a notte fonda, non sono riuscito a cogliere molto delle immagini propinatemi e della voce fuori campo montata sui cinegiornali d'epoca. Però sono riuscito a farmi comunque un'idea ed a mettere insieme informazioni importanti per capirne di più, magari a freddo per rivivere la voce di un poeta "arrabbiato".

Se c’è un modo per riavvicinarsi al pensiero cinematografico e civile di Pier Paolo Pasolini con occhi contemporanei, La rabbia di Pasolini (2008) è un punto di partenza quasi obbligato. Non un semplice documentario, ma un tentativo di restituire all’opera di Pasolini il volto che avrebbe voluto avere quasi mezzo secolo prima La rabbia di Pasolini inizia con la prima parte sottotitolata Ipotesi di ricostruzione della versione originale del film: è un lavoro curato da Giuseppe Bertolucci, realizzato con la collaborazione della Cineteca di Bologna, dell’Istituto Luce e di altri archivi cinematografici. L’idea di fondo era semplice ma ambiziosa: ricomporre e restituire al pubblico la parte di film che Pasolini aveva immaginato per il suo La rabbia (1963), prima dell’intervento produttivo che ne aveva snaturato la forma originale.

Non si tratta di un remake, ma di un rimontaggio critico e filologico: materiali d’archivio, le sceneggiature originali, testi e registrazioni sono stati ripensati per offrire una versione più vicina al progetto pasoliniano che alla versione mista uscita negli anni ’60. Il film del 2008 dura quasi un'ora e mezza e alterna introduzione, materiale inedito, il montaggio originale di Pasolini e appendici critiche, con letture di versi e commenti contemporanei.

Quello che emerge è un’opera che più che documentario sembra poema visivo e polemico: riflette sui vortici del Novecento – guerra fredda, consumismo, media, rivoluzioni e contraddizioni – attraverso immagini di repertorio e una voce fuori campo che tocca corde profonde (e spesso scomode) della nostra storia culturale e sociale.

L’originale del 1963: cos’era La rabbia?

Per capire il senso di questo restauro è utile tornare all’originale La rabbia del 1963, un progetto fortemente voluto da Pasolini ma finito, all’epoca, in una forma compromessa. Il regista voleva realizzare un film fatto quasi esclusivamente di materiale di repertorio (cinegiornali, immagini di attualità, fotografie) commentato con una voce personale e poetica, capace di incarnare la sua visione critica del mondo.

Il produttore, preoccupato dall’enfasi politica delle sue idee, decise però di affiancare alla parte di Pasolini (comunista) quella di un altro intellettuale allora celebre e nettamente all’opposto:  Guareschi. Ne nacque un film in due blocchi – sinistra e destra, protesta e difesa dello status quo – che diluì la forza provocatoria del progetto pasoliniano. Pasolini stesso, pur irritato, accettò di tagliare parte del suo lavoro originale pur di far uscire il film. Non ho visto l'originale ci tengo a dirlo, quindi non saprei come il connubio delle due parti possa aver combinato il materiale a disposizione. Guardare oggi la prima parte resta comunque un esercizio critico sul nostro presente. Le tematiche che attraversano il film come la manipolazione dei media, il ruolo della cultura nella società, le tensioni tra individuo e potere risuonano con vigore nel nostro tempo. È un documento storico, certo, ma anche una sfida: ci invita a pensare con la testa di un autore che non si è mai arreso alla superficialità dei discorsi dominanti.Poi che io non sia riuscito a coglierne intimità, emozioni e e logica è un altro paio di maniche.


giovedì 18 dicembre 2025

Standard Operating Procedure - La Verità Dell'Orrore (2008)

 
Regia: Errol Morris 
Anno: 2008
Titolo originale: Standard Operating Procedure
Voto e recensione: 6/10
Pagina di IMDB (7.4)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon 
 
Film:
Guardare un’opera come Standard Operating Procedure - La verità dell'orrore non è un’esperienza che si affronta con leggerezza, specialmente per chi, come me, tende solitamente a evitare sia il genere bellico che la forma documentaristica. Eppure, ci sono momenti in cui il dovere della testimonianza e la necessità di un giudizio critico devono prevalere sulle preferenze personali. Errol Morris, con questo lavoro del 2008, ci trascina dentro l’abisso di Abu Ghraib, non limitandosi a mostrarci l’orrore che già conoscevamo attraverso le cronache, ma interrogandoci sul senso profondo delle immagini e sulla natura stessa della verità fotografica. Da amante degli Stati Uniti, provo una profonda amarezza nel vedere i valori di libertà e democrazia calpestati in quel modo, ma proprio questo affetto per la cultura americana mi impone di essere distaccato e spietatamente onesto: ciò che emerge da questo racconto è una sensazione di vergogna e schifo viscerale.

​Non sono un ingenuo, né mi definisco un pacifista nel senso più idealista del termine; so bene che la guerra è una macchina brutale e che atrocità simili accadono probabilmente in ogni conflitto, rimanendo per lo più sepolte sotto il peso del segreto militare. In questo caso, però, la bolla è esplosa e tutto, o quasi, è venuto a galla grazie a quegli scatti digitali che sono diventati il simbolo del fallimento morale di un’intera spedizione. Morris analizza i fatti con una freddezza quasi chirurgica, intervistando i protagonisti diretti di quegli abusi — i soldati di basso rango che abbiamo visto sorridere accanto ai prigionieri umiliati — e il risultato è un quadro desolante di deresponsabilizzazione. È fin troppo facile puntare il dito contro l'ultimo anello della catena, ma è evidente che il pesce puzza dalla testa. I veri responsabili, coloro che hanno creato il clima di impunità e hanno teorizzato le tecniche di "interrogatorio potenziato", siedono quasi sempre ai piani alti e, come spesso accade nella storia, trovano sempre una scappatoia legale o politica per restare impuniti.

​Il film mette in luce come la mancanza di controlli rigorosi abbia permesso a dei giovani soldati, spesso privi di una guida etica solida, di trasformarsi in aguzzini. Sebbene sia utopistico pensare di annullare totalmente la crudeltà in un contesto bellico — perché sappiamo tutti che la guerra non è mai una bella cosa e porta con sé il peggio dell'umanità — è imperativo pretendere meccanismi di supervisione che limitino il più possibile simili derive. Non basta però guardare verso l'alto; il documentario ci spinge a riflettere sulla necessità di una presa di coscienza che parta anche dal basso. La banalità del male di cui parlava la Arendt si manifesta qui attraverso macchine fotografiche digitali usate come trofei, in un mix di noia, sadismo e obbedienza cieca. Standard Operating Procedure non è solo un resoconto di fatti storici, ma un monito necessario sulla facilità con cui l'essere umano può smarrire la propria bussola morale quando si sente parte di un sistema che giustifica l'ingiustificabile. È una visione difficile, disturbante, ma essenziale per chiunque voglia guardare oltre la propaganda e affrontare la realtà nuda e cruda di ciò che l'uomo è capace di fare dietro le mura di una prigione, lontano da occhi indiscreti.

 
Edizione: bluray import
Versione import con audio italiano in Dolby Digital TrueHD 5.1 e molti extra:
  •  Commento audio
  • Trailer
  • Premiere Q&A con Errol Morris (11 minuti)
  • Conferenza stampa con il regista (32 minuti)
  • Doplomacy in the age of terror (45 minuti)
  • Scene aggiuntive (26 minuti)
  • 5 interviste estese 

mercoledì 17 dicembre 2025

Assassination (1987)

 
Regia: Peter R. Hunt
Anno: 1987
Titolo originale: Assassination
Voto e recensione: 3/10
Pagina di IMDB (5.2)
Pagina di I Check Movies
Acquista su Amazon 
 
Film:
Visto oggi Assassination è davvero quello che ti aspetti da un film d’azione anni ’80 con Charles Bronson: tanto machismo inspiegabile e poco altro che abbia un minimo di buon senso. La trama è ridicola, i dialoghi sembrano usciti da una fiera della pochezza, e il tutto si trascina più per inerzia che per logica o tensione reale.

Bronson interpreta Jay Killion, agente dei Servizi Segreti che deve proteggere la First Lady da una serie di attentati, e sì, tutto si svolge con la prevedibilità di un manuale di cliché: lei inizialmente lo detesta, poi scopre i rischi, fuggono insieme, qualche scena d’azione e boom, fine.

I dialoghi? Molto “guarda che esplode tutto!” e pochissima profondità. La sceneggiatura è piuttosto scarna e non aiuta a far decollare niente, mentre i personaggi secondari sono talmente piatti che potresti confonderli con sagome di cartone.

Nota positiva? Se cerchi un relitto nostalgico degli anni ’80, c’è almeno da apprezzare la presenza sullo schermo della coppia Bronson–Jill Ireland (lei, in uno dei suoi ultimi ruoli), che anche se non aggiunge molto alla qualità del film regala qualche momento leggermente più umano/ironico nel loro rapporto.
E per fan hardcore di Bronson che vogliono vedere il suo stoicismo incrollabile in azione, beh… quel lato lì c’è, anche se non basta a salvare il film.

In definitiva: penoso, con una trama da manuale del “tanto per tenere in piedi 88 minuti” e dialoghi che ti fanno rimpiangere persino il doppiaggio amatoriale. Ma se vuoi un pezzo di cinema ottantiano bizzarro e involontariamente comico, qualche secondo di curiosità lo strappa.

Edizione: DVD
Semplice DVD con traccia italiana in multicanale, ma nessun extra 

lunedì 15 dicembre 2025

Savatage - Sirens

 

Autore: Savatage 
Anno: 1983
Tracce: 9
Formato: CD 
Acquista su Amazon

Partiamo da una verità: Sirens non è solo il primo album dei Savatage, è praticamente la loro prima botta di vita nella scena heavy metal americana — un debutto che ancora oggi, quasi 45 anni dopo, fa girare la testa a chi ama il metallo vecchia scuola. Pubblicato nel 1983, Sirens arriva da Tampa, Florida, registrato praticamente in un giorno a Morrisound Studio con i brani appena finiti di scrivere. Roba da far impallidire qualsiasi calendario di produzione odierno.

Siamo nella fossa primordiale del metal — niente fronzoli prog, niente concetti filosofici da colonna sonora Netflix: qui c’è metallo grezzo, veloce, sanguigno, con riff che ti colpiscono come una secchiata di ghiaccio in faccia. Jon Oliva alla voce e piano, il fratello Criss Oliva alla chitarra — già qui sai che non stai ascoltando roba da discoteca, ma roba che pretende di scuoterti l’anima oltre che il collo.

La prima cosa che salta all’occhio (letteralmente) è la storia della copertina. L’uscita originale aveva un artwork con una nave in mezzo a un mare tempestoso, gothica e sinistra, che calza perfettamente con il mood ancor grezzo e avventuroso del disco. Magari avere quella edizione originale...  Ma poi, nelle ristampe europee e americane più diffuse, la cover cambia completamente: un’illustrazione tratta dal libro per bambini The Borribles Go For Broke, con figure quasi fiabesche, che sembra un’esca giocosa in un mare di chitarre taglienti. Questa incongruenza estetica tra copertine è ormai parte del folklore da collezione tra fan e vinilomani — trovare la versione originale fa la gioia di chi colleziona prime edizioni.

E qui arriva l’aneddoto da bar: secondo alcune leggende metallo-popolari del web, l’album doveva essere molto più lungo — quasi un doppio — ma la limitazione fisica dei vinili dell’epoca costrinse la band a separare parte del materiale e darlo poi alle stampe come EP The Dungeons Are Calling l’anno successivo. Jon Oliva stesso ha parlato di questa scelta, e l’espediente alla fine ha fatto la felicità dei fan, regalando due pietre miliari della band invece di una. Esiste comunque, più diffusa oggi ed a prezzi umani, la versione doppia con una tracklist più lunga. 

Parliamo del sound: non è ancora il Savatage progressivo che conosceremo nei dischi di metà anni Ottanta e Novanta, ma è già ironclad nella sua foga. La title track che apre il disco è una cannonata che ti lascia senza fiato — riff serrati, ritmica a tutta birra, voce aggressiva e cori che sembrano gridare battaglia. Da lì in poi il disco non si ferma: le tracce scorrono come un treno in corsa tra power metal, speed e accenni di oscurità rituale, ritratto di una band che sta ancora cercando la sua anima ma lo fa con una determinazione feroce.

Ascoltandolo oggi, Sirens ha quel sapore di unicità storica che pochi debutti riescono a evocare: senti l’energia di una band che non ha ancora niente da perdere e tutto da conquistare. Per i fan del metal duro, è una tappa quasi obbligata — non tanto perché sia perfetto, ma perché racconta chi erano i Savatage prima di diventare ciò che poi sarebbero diventati. In un certo senso è come guardare un giovane gladiatore prima della  grande arena: con ancora qualche imperfezione, ma con una voglia di spaccare il mondo che ti raggrinza le dita se tieni il volume troppo alto.

Insomma: Sirens non è solo un debutto. È una dichiarazione di guerra colta nel mezzo di una tempesta di chitarre e sudore.