Ieri sera, nella cornice struggente di Piazza Bovio – che da sola meriterebbe una standing ovation eterna – ho assistito a Zorro – Un eremita sul marciapiede, monologo interpretato da Sergio Castellitto e scritto da Margaret Mazzantini. Evento gratuito, ma con prenotazione obbligatoria. Roba seria. E meritata.
Difficile mettere in fila le emozioni.
Sì, perché Castellitto non ha semplicemente recitato un testo. È entrato in un’altra pelle. Ha preso le parole, le ha masticate e poi sputate fuori con un’intensità che ti lasciava senza fiato. Una performance che, se sei vivo, non può non toccarti. Se sei morto dentro, ti fa almeno una carezza al cuore.
Il monologo racconta la storia di un uomo che ha perso tutto: lavoro, famiglia, dignità, e si ritrova a vivere per strada. Un clochard, sì, ma con l’anima pulsante. Con un cane simbolico nel nome – Zorro – e una visione acuminata di noi, "i normali", che lui chiama cormorani.
E lì, tra riflessioni amare, sarcasmi lucidissimi e improvvisi squarci poetici, emerge una verità: Zorro è Castellitto, Castellitto è Zorro. Non c'è distinzione. C’è solo un uomo – forse tanti uomini – che provano a resistere mentre il mondo li schiaccia. E lo fanno come possono: parlando, raccontando, camminando a piedi scalzi sul marciapiede della vita.
Il testo della Mazzantini è di quelli che non cercano applausi, ma ti piantano un chiodo nel petto. Castellitto, con quella voce graffiata e quel corpo che sembra stanco come il personaggio, gli dà vita in modo spiazzante. Ogni pausa è un colpo. Ogni sguardo al cielo, un grido. Un film nella nostra mente.
Piazza Bovio, con il mare alle spalle, sembrava il luogo perfetto per questo naufrago d’asfalto.
Ecco, Zorro non è uno spettacolo da vedere.
È una ferita da sentire. E da portarsi a casa.