
Westworld – Stagione 2: L’illusione del libero arbitrio
La seconda stagione di Westworld è un labirinto di narrazione, un gioco metanarrativo che mette alla prova lo spettatore tanto quanto i suoi personaggi. Dopo il finale esplosivo della prima stagione, la serie di Jonathan Nolan e Lisa Joy si spinge ancora più in là nel concetto di coscienza artificiale, libero arbitrio e costruzione della realtà.
Se la prima stagione era un lungo prologo per il risveglio delle macchine, la seconda si concentra sulle conseguenze: il caos che segue la ribellione degli host e il tentativo disperato degli umani di riprendere il controllo del parco. Ma Westworld non è mai stato una serie lineare, e questa stagione ne è la prova definitiva: il racconto è fratturato, disseminato di flashback e salti temporali, con più linee narrative che si intrecciano fino a un climax che cambia ancora una volta le regole del gioco.
Il labirinto diventa una porta
Uno degli aspetti più affascinanti della seconda stagione è la trasformazione del simbolismo del labirinto. Se nella prima rappresentava il percorso interiore dei residenti verso la coscienza, ora diventa una porta, una via di fuga verso un mondo digitale promesso a coloro che riescono a raggiungerlo. Il sogno della libertà si sposta quindi su un nuovo livello: non si tratta più di prendere coscienza, ma di trovare un nuovo destino, lontano dalle catene del mondo umano.
Dolores (Evan Rachel Wood) emerge come un'antagonista implacabile, guidata da una visione radicale della libertà che la spinge a compiere scelte spietate. Se nella prima stagione il suo percorso era quello della vittima che diventa consapevole della propria esistenza, ora è un’eroina tragica, disposta a sacrificare tutto per distruggere il sistema che l'ha creata. La sua contrapposizione con Maeve (Thandiwe Newton) è il cuore emotivo della stagione: se Dolores è spinta dalla vendetta e dalla distruzione, Maeve è mossa dall’amore e dalla speranza, in particolare per ritrovare la figlia perduta.
Bernard (Jeffrey Wright), invece, è il vero enigma della stagione. Smarrito tra i suoi ricordi e manipolato da forze più grandi di lui, incarna la confusione dello spettatore. La sua mente è un puzzle, e ogni episodio aggiunge o rimuove un tassello, fino a rivelare la verità sulla sua natura e sul ruolo che Ford (Anthony Hopkins) ha ancora nella sua esistenza.
Il Giappone di Shōgunworld e la bellezza delle sottotrame
Uno dei punti più riusciti della stagione è l’introduzione di Shōgunworld, un parco ispirato al Giappone feudale, che fa da specchio a Westworld. Qui, la serie gioca con il concetto di narrazione riciclata, mostrando come gli stessi archetipi vengano ripetuti in mondi diversi. L’episodio ambientato in questo universo è visivamente splendido e offre uno dei momenti più poetici della stagione.
Altre sottotrame, come quella dedicata ad Akecheta (Zahn McClarnon), offrono una variazione tematica potente, anche se l'ho trovata noiosa. L’episodio Kiksuya, interamente in lingua lakota, è un esempio straordinario di storytelling emotivo, raccontando la presa di coscienza di un residente attraverso una lente più intima e meno legata alla violenza. Diciamo una specie di episodio per staccare da tutto il resto.
Il finale e il futuro di Westworld
Il finale della seconda stagione è un turbine di rivelazioni, tradimenti e cambi di prospettiva. La serie si spinge oltre il parco, lasciando intendere che la vera battaglia sta per iniziare nel mondo reale. Alcuni personaggi trovano la loro fine, altri si trasformano, e altri ancora scompaiono per poi riapparire in forme inaspettate.
Westworld continua a essere una serie che sfida lo spettatore, ponendo domande più che offrendo risposte. Se la prima stagione giocava con il concetto di coscienza e destino, la seconda si interroga sulla natura della realtà e sulla possibilità di redenzione. È un viaggio non sempre facile, a volte volutamente ostico, ma ricco di momenti visivamente ed emotivamente potenti.
Un rapporto diverso con i residenti
Se nella prima stagione si poteva provare una sorta di empatia con le macchine, questa scompare del tutto nella seconda. Dolores, in particolare, diventa una figura talmente fredda e spietata che diventa difficile vederla come una vittima, mentre il resto degli host sembra più impegnato a sopravvivere o a portare avanti il proprio disegno personale, piuttosto che a riflettere sulla loro condizione.
Ma a ben vedere, questo è un aspetto che Westworld porta alle estreme conseguenze proprio per farci riflettere su un concetto più ampio: quanto senso ha provare empatia per esseri artificiali programmati per reagire in un certo modo? Se davvero ci facessimo coinvolgere, dovremmo sentirci in colpa per ogni NPC che abbiamo ucciso in un videogioco. E parliamo di una lista infinita: dal primo Doom, dove sterminiamo orde di demoni pixelati, a GTA, dove l’eliminazione di pedoni e poliziotti è parte del divertimento, fino a The Last of Us, che ci costringe a uccidere avversari umani resi emotivamente credibili, ma pur sempre virtuali.
La seconda stagione di Westworld, in un certo senso, ci mette di fronte a questa contraddizione: siamo disposti a compatire i residenti solo finché sembrano indifesi e in balia del loro destino, ma quando prendono il controllo e iniziano a comportarsi come veri antagonisti, smettiamo di considerarli degni di empatia. Proprio come nei videogiochi, dove la distinzione tra "personaggi vivi" e "semplici ostacoli da superare" è dettata solo dal nostro coinvolgimento nella storia.
Con questa stagione, la serie abbandona definitivamente ogni pretesa di essere un semplice thriller fantascientifico per diventare una riflessione profonda sul controllo, sulla libertà e sulla costruzione della nostra identità. Il mondo di Westworld è più grande di quanto pensassimo, e il gioco è appena cominciato. Nonostante in molti sconsiglino di continuare, son curioso di vedere almeno gli episodi iniziali della terza.
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