
Il romanzo si muove con passo deciso tra scienza, una possibile distopia e riflessione esistenziale. Burgio costruisce una narrazione che si nutre di inquietudini contemporanee — tra biotecnologie, manipolazione genetica e derive etiche — ma senza rinunciare a un impianto narrativo solido e personaggi credibili. Nonostante la materia trattata sia complessa, il testo non scivola mai nel didascalico: è piuttosto un invito a pensare, a farsi domande, a riflettere su ciò che significa davvero “umanità” in un mondo che sembra volerla superare.
La scrittura è chiara, sobria, quasi chirurgica nel modo in cui incide sulla trama le sue traiettorie più tese. Eppure, qua e là, non mancano aperture liriche e momenti di autenticità emotiva che rendono il romanzo vivo, persino intimo.
Forse non è un libro per tutti — richiede attenzione, disponibilità ad accogliere concetti scientifici e a lasciarsi trascinare in un futuro inquietante ma plausibile — ma chi accetta la sfida sarà ripagato.
Tre anni, dicevo, ma ne è valsa la pena. E anzi, forse proprio questa lettura lenta e intermittente ha reso il libro ancora più memorabile, come quelle conversazioni che riprendi di tanto in tanto con vecchi amici, ogni volta un po’ più profonde.
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