Ci sono dischi che arrivano come meteore nella tua vita, incendiando tutto e lasciandoti lì a domandarti che musica stavi ascoltando prima. In the Court of the Crimson King è uno di quei dischi. Ricordo la prima volta che lo misi su: una copertina che da sola ti urlava in faccia, con quella faccia deformata dal terrore che sembra voler uscire dal vinile per divorarti l’anima. Era impossibile ignorarlo. Ma il cd, nella mia "formazione" musicale arrivò tardivamente rispetto ad altre decine di album iconici. Ne fui attratto essenzialmente proprio da quella copertina che vedevo ogni sera sparata e dipinta sul muro dello Zibibbo, storico cocktail bar della mia città. Eh già, se non avessi intrangugiato sambuche e negroni, chissà quanto altro tempo avrei dovuto aspettare.
A quel tempo (parliamo degli anni in cui la musica la si ascoltava su impianti polverosi o con cuffie sgangherate o peggio ancora in macchina ), pensavo di aver sentito quasi tutto: rock duro, psichedelia, canzoni epiche e cavalcate lisergiche. Poi parte 21st Century Schizoid Man, e tutto salta per aria. Un pezzo che ti prende a ceffoni con riff metallici, sax isterici, e una voce filtrata che sembra arrivare da un megafono impazzito nel mezzo di una rivolta post-industriale. E io, lì, a chiedermi: “Ma che diavolo è questa roba?”
Il disco, pubblicato nell’ottobre del 1969, è spesso considerato il primo vero album di progressive rock. Ma è anche qualcosa di più. È una dichiarazione d’intenti, un viaggio, un teatro sonoro dove jazz, rock, musica classica e visioni distopiche si mescolano in un equilibrio che pare impossibile, eppure funziona alla perfezione. Robert Fripp, chitarrista e mente del progetto, sembra suonare da un’altra dimensione.
I Talk to the Wind arriva dopo il caos e sembra quasi chiederti di respirare. Un brano delicato, sognante, dove la flautata malinconia di Ian McDonald ti accompagna come una carezza. Poi Epitaph, e qui si entra nella tragedia pura: testi cupi, arrangiamenti orchestrali, e quel senso di fine imminente che, se ascoltato oggi, suona quasi profetico. Moonchild è forse la parte più divisiva: inizia come una nenia onirica e poi si perde in un’improvvisazione astratta che ha fatto discutere per decenni.
Ma il colpo finale è The Court of the Crimson King, l’apice visionario. Un’odissea sonora tra mellotron, immagini medievali e inquietudini moderne. Un pezzo che potresti ascoltare dieci volte di fila e scoprire ogni volta qualcosa di nuovo: un’armonia nascosta, un’eco lontana, un dettaglio sepolto nella nebbia del suono.
Ascoltarlo oggi, dopo decenni di musica che ha provato (e spesso fallito) a essere “progressiva”, è come tornare alla sorgente. In the Court of the Crimson King non è solo un debutto. È un tempio. Un luogo da visitare in silenzio, con rispetto, magari al buio, mentre fuori piove e tu non sai se sei ancora nel 1969 o se il mondo è semplicemente tornato da dove era partito.
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