La pianificazione come arte dell’improvvisazione
di VIKI
Jack ha una dote. Una di quelle che non si insegnano, ma che si allenano, si coltivano, si perfezionano come un bonsai che cresce storto, ma cresce preciso. È la capacità di organizzare. Non solo viaggi, non solo gite, ma la materia grezza della vita. Una dote che spesso viene fraintesa da chi crede che l'organizzazione sia una trappola per il caso, un modo per avere sempre tutto sotto controllo. Ma no: l'organizzazione, quella vera, è l'anticamera della libertà.
Jack non organizza per ingabbiare, ma per liberarsi. Mappa gli imprevisti, predispone scenari alternativi, calcola le variabili come un meteorologo del caos. E non lo fa per ansia o mania del controllo – o almeno non solo – ma perché sa, profondamente, che l’improvvisazione non è uno slancio cieco, ma il risultato di una preparazione invisibile.
L'arte estrema dell’improvvisazione si realizza proprio così: con una meticolosa prevenzione degli imprevisti. Non per evitarli a tutti i costi, ma per non restarne schiacciati quando arrivano. E se è vero che il caos è il terreno di gioco della vita, allora Jack ci entra con scarpe buone, borraccia piena, e una mappa mentale che prevede anche l’eventualità che la mappa stessa prenda fuoco.
Perché a ben vedere, l’imprevisto non è il nemico. È un’opportunità camuffata. E chi ha una mente allenata non si limita a gestirlo: lo sfrutta, lo piega al proprio percorso, lo trasforma in un vantaggio, o almeno in un aneddoto da raccontare. Ed è qui che l’arte della pianificazione tocca il suo zenit: quando riesce a impedire che il problema si presenti — e quando non ci riesce, ti fa trovare lì, già pronto, con la chiave giusta in tasca.
C'è un che di stoico in tutto questo, ma anche un fondo di sapienza contadina: prevedere la grandine, sì, ma avere anche le mani callose per ripiantare tutto se serve.
Disamina psicologica (non richiesta, ma necessaria)
C'è qualcosa di profondamente identitario in questa forma di pianificazione. Un bisogno di costruire senso nel mondo, ma senza illusioni. Non per attaccarsi a un ordine rigido, ma per danzare sul confine tra ciò che possiamo controllare e ciò che ci travolge. È una forma di responsabilità, certo, ma anche una forma di amore: per sé, per gli altri, per il tempo che passa e che non torna.
Jack non è rigido. È elastico con struttura. Sa che la vita non si piega a un Excel, ma anche che la casualità diventa più gestibile quando le basi sono solide. È uno stratega che ama l'incognita, purché arrivi mentre lui ha già preparato il caffè.
E in fondo è per questo che chi si affida a lui si sente al sicuro. Perché sa che dietro ogni improvvisazione riuscita, c’è stato qualcuno che, in silenzio, ha pensato a tutto.
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